Cosa è l’Alzheimer
Il morbo di Alzheimer è la più diffusa patologia neuro-degenerativa, caratterizzata dalla compromissione progressiva delle funzioni cognitive, determinata dall’accumulo patologico di proteine insolubili in determinate regioni del cervello.
La memoria, il ragionamento, il linguaggio, l’orientamento spazio-temporale, sono alcune delle attività mentali maggiormente colpite dalla patologia, che, comunque, arriva a coinvolgere tutti gli aspetti dell’esistenza del paziente.
Il morbo di Alzheimer è stato descritto per la prima volta dal neuropatologo e psichiatra tedesco Alois Alzheimer, nel 1906.
All’interno delle cellule nervose, il paziente presenta accumuli anomali di proteine alterate, le beta-amiloidi, che inducono degenerazione e morte dei tessuti cerebrali.
L’evoluzione della sintomatologia è progressiva: dapprima il paziente appare distratto e svogliato, poi subentrano i disturbi della memoria e deficit di tipo affettivo, fino a diventare incapace di instaurare delle relazioni con le persone che lo circondano.
Il morbo di Alzheimer, nelle prime fasi della malattia, può essere trattato in maniera eccellente da parte di amici e parenti, evitando che il paziente perda bruscamente tutte le sue attività.
Il soggetto dovrebbe conservare il più possibile la sua autonomia, per compiere le azioni che riesce a portare a termine senza essere coadiuvato da nessuno.
I parenti vicini alla persona affetta da Alzheimer dovrebbero stimolarla a svolgere mansioni anche complesse, sotto una semplice supervisione, per infondere più fiducia possibile nelle proprie capacità, che, almeno nei primi stadi, sono in gran parte conservate.
È fondamentale evitare di indurre la cosiddetta “invalidità precoce“, sostituendosi nell’esecuzione di attività semplici o complesse, in persone che possono ancora affrontare la quotidianità, seppur con maggiori difficoltà.
I cambiamenti possono rappresentare eventualità potenzialmente dannose per il malato di Alzheimer, mentre la conservazione di abitudini precise è in grado di infondere la giusta serenità nel paziente, arrivando a ritardare l’evoluzione della sintomatologia.
Gli eventi dovrebbero essere ripetitivi, compiuti sempre agli stessi orari, in modo da escludere elementi nuovi, le cui informazioni non possono essere internalizzate e anzi diventano fonte di confusione.
Il paziente affetto da Alzheimer, negli stadi più avanzati, perde la capacità di comunicare tramite il linguaggio, ma mantiene la capacità di interagire con l’ambiente esterno attraverso gli sguardi, i gesti e il tono delle parole.
Il soggetto malato conserva l’abilità di discriminare tra persone conosciute e sconosciute, e reagisce a sollecitazioni tattili come il tocco, una carezza e un incoraggiamento.
Ecco perché diventa estremamente importante per il care-giver non lasciarsi andare a momenti di stanchezza ma supportare sempre con serenità e dolcezza il malato, che percepisce ogni sfumatura emotiva di chi lo assiste.
Il comportamento del paziente si modula di conseguenza, facendo leva su sentimenti positivi o negativi che, rispettivamente, possono concretamente aiutare o ostacolare lo svolgimento delle attività quotidiane.
Esistono varie teorie riguardo allo sviluppo della malattia di Alzheimer, ma la più accreditata e universalmente riconosciuta come attendibile è quella della cosiddetta “cascata dell’amiloide“.
Si tratta di una teoria che riconduce la causa della patologia all’alterazione nella struttura di particolari proteine che diventano così insolubili e, in quanto tali, precipitano sotto forma di placche solide all’interno del tessuto cerebrale.
Tale deposito patologico determina irrimediabilmente la degenerazione e poi la morte dei neuroni, oltre a fenomeni infiammatori diffusi.
Epidemiologia
La malattia di Alzheimer è una patologia molto diffusa nella popolazione, dato che colpisce, in Italia, circa 800mila persone e rappresenta il 60% di tutte le forme di demenza.
L’Alzheimer è sicuramente ereditario, anche se fino al 98% dei casi sono cosiddetti “sporadici”, cioè soggetti privi di parenti affetti dalla malattia.
Le forme famigliari sono quindi limitate al 2% dei casi totali, e si ricollegano direttamente ad alterazioni a carico degli alleli che codificano per la proteina precursore dell’amiloide.
L’Alzheimer viene definito “pre-senile” se si manifesta prima del compimento dei 65 anni di età, e in questo caso è quasi sicuramente di origine genetica.
La predisposizione genetica va comunque affiancata a fattori epi-genetici o ambientali, che sono probabilmente più importanti nello sviluppo della malattia.
La dieta, l’attività fisica, patologie concomitanti come quelle vascolari e il diabete sono tutti esempi di elementi che contribuiscono all’insorgenza del morbo di Alzheimer.
Esiste anche una cosiddetta “teoria della riserva cognitiva“, secondo cui il soggetto che nel corso della sua esistenza accumula delle riserve neurali grazie allo svolgimento di attività intellettive (interazione sociale, lettura, interessi) è più protetto nei confronti di questa malattia.
Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel mondo oltre 55 milioni di persone sono a stretto contatto con una forma di demenza senile collegata al Morbo di Alzheimer, che probabilmente aumenterà a circa 75 milioni di individui entro il 2030, e 132 milioni entro il 2050.
Simili proiezioni tengono conto del fatto che ogni anno si verifica un incremento di casi pari a 10 milioni di ammalati conclamati, senza contare quelli non chiaramente diagnosticati.
Questa patologia, che è una delle più invalidanti tra quelle neuro-degenerative, rappresenta la VII causa di decessi nel mondo.
Il sesso femminile è chiaramente più colpito di quello maschile (60% in più) e l’età si aggira quasi sempre nella terza fase della vita (oltre i 55-60 anni), anche se non mancano casi di Alzheimer giovanile.
Dopo gli 80 anni, la percentuale di ammalati mostra un incremento del 20%.
Attualmente il numero totale di ammalati nel mondo è stimato intorno a 650.000, con circa 3 milioni di soggetti colpiti da demenza senile in qualche modo collegata direttamente o indirettamente.
Il Morbo di Alzheimer rappresenta il 54% di tutte le demenze senili inguaribili.
Eziopatogenesi
Alla base dello sviluppo della malattia di Alzheimer vi è un’alterazione a carico della trascrizione della proteina beta-amiloide.
Se la trascrizione avviene in maniera scorretta, ovvero della catena amminoacidica viene tagliata in siti errati, la proteina risultante è anomala e non solubile.
La diretta conseguenza dell’assenza di solubilità ne determina l’accumulo sotto forma di aggregati solidi, che vanno a formare delle vere e proprie placche all’interno del tessuto cerebrale.
Tali placche amiloidee esercitano tossicità nei confronti dei neuroni, inducendo la loro degenerazione e, successivamente, la morte.
Esiste un percorso preciso che compie la malattia all’interno delle regioni anatomiche encefaliche: essa inizia sempre dall’ippocampo, che è la sede delle funzioni mnemoniche, da cui derivano anche i sintomi iniziali, che sono appunto a carico dell’acquisizione di nuove informazioni.
La morte neuronale determina le conseguenze cliniche in funzione della zona colpita, come ad esempio le difficoltà nella gestione della quotidianità, che vanno ricondotte a lesioni a carico delle aree cognitive de cervello.
Questa malattia, che senza dubbio riduce notevolmente le aspettative di vita dei pazienti, impiega da 3 a 10 anni a causarne il decesso dal momento in cui è stata diagnosticata.
Il problema maggiore ad essa collegato è la sua natura multifattoriale, per cui diventa piuttosto difficile identificare l’eziopatogenesi e quindi intervenire con terapie efficaci e mirate.
All’origine di un simile disturbo vi sono fattori genetici (famigliarità appurata), influenze ambientali e stile di vita, cause in grado di influenzare i processi sintetici di alcune proteine cerebrali che, a un certo punto, diventano tossiche per l’organismo.
Si parla infatti di un vero e proprio avvelenamento del cervello che non riesce più a controllare le funzioni del corpo e della mente.
Dal punto di vista macroscopico è possibile evidenziare alcune aree di atrofia encefalica, a livello delle quali i neuroni sono morti e quindi non funzionano più.
La conseguente distruzione del tessuto cerebrale provocata dalla necrosi neuronale è riscontrabile soprattutto nell’ippocampo e nel nucleo dell’amigdala, che sono le principali zone coinvolte nella capacità di memorizzare.
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Dal punto di vista microscopico, invece, i pazienti si caratterizzano per la presenza di agglomerati proteici patogeni, localizzati a livello sia intra che extra-cellulare: si tratta delle famose “placche peptidiche” composte da β-amiloide su cui tutti i farmaci di ultima generazione sono ormai concentrati.
Sintomi
Nelle primissime fasi della malattia di Alzheimer si manifesta la perdita di memoria, in particolare la memoria cosiddetta “recente”, cioè riferita ad eventi appena successi.
I pazienti chiedono più volte le stesse cose, non ricordano atti appena compiuti e possono mostrare disorientamento.
Il processo evolve lentamente ma inesorabilmente nel tempo, fino a compromettere le capacità di avere una vita relazionale adeguata.
Ovviamente, bisogna sempre distinguere tra piccoli deficit di memoria occasionali, magari in un contesto di stress, che sono assolutamente innocui e riscontrabili a qualsiasi età, e deficit ripetuti e continui, che non sono fisiologici ma vengono considerati declini cognitivi lievi.
I segnali iniziali non rappresentano demenza, ma sono estremamente utili per effettuare una diagnosi precoce.
Il primo sintomo che compare in un paziente affetto da morbo di Alzheimer è da ricercare nella memoria, dato che la degenerazione neuronale indotta dalle placche amiloidee inizia sempre dalla regione ippocampale.
Il soggetto, nelle fasi iniziali, si mostra incapace di acquisire nuove informazioni, di ricordare eventi avvenuti di recente, conservando però la memoria di fatti passati da molto tempo.
Con la progressione della malattia, vengono coinvolte tutte le funzioni cognitive, fino ad arrivare a linguaggio, alla capacità di trovare le parole per esprimere i concetti, alla capacità di pianificare gli atti da compiere.
I famigliari dei pazienti affetti da Alzheimer spesso non capiscono immediatamente di trovarsi di fronte a questa malattia, in quanto i piccoli deficit della memoria sono accettati universalmente come un normale effetto dell’avanzare del tempo.
In realtà, non ricordare le azioni compiute durante la giornata e nei giorni immediatamente precedenti, così come dimenticare il nome di oggetti di uso comune, sono segnali che dovrebbero mettere in allarme, a prescindere dall’età del soggetto.
La visita neurologica è il primo step da affrontare, seguita da una valutazione neuro-psicologica che consente di capire se il paziente è affetto da disturbi considerabili come tali e non ascrivibili alla semplice senilità.
Da un punto di vista di indagini strumentali, si procede di solito a una risonanza magnetica cerebrale, che evidenzia le dimensioni dell’ippocampo e le sue eventuali alterazioni.
Anche il prelievo di liquor (liquido cefalo-rachidiano) attraverso la puntura lombare, può mettere in luce la presenza di proteine alterate di tipo beta-amiloide.
La medicina nucleare coadiuva il percorso diagnostico, per trovare eventuali regioni anatomiche in cui la perfusione ematica risulta alterata, anche mediante l’impiego di radio-ligandi che individuano in maniera specifica i depositi di amiloide.
Terapia
Esiste una prevenzione nei confronti del morbo di Alzheimer, che consiste nel tentativo di impedire lo sviluppo delle anomalie dei processi a carico della proteina beta-amiloide.
Una dieta ricca di antiossidanti può rappresentare un elemento di prevenzione, ma anche di rallentamento della progressione della malattia, nel caso di pazienti che ne sono già affetti.
Le funzioni mentali e fisiche devono essere mantenute costantemente attive, compatibilmente con i limiti dell’età, così come il non avere subito traumi cranici rappresenta un fattore protettivo.
Una volta che la diagnosi di Alzheimer è certa, si possono mettere in atto percorsi terapeutici atti a rallentare lo sviluppo della malattia e di migliorare, quanto più possibile, la qualità della vita del paziente.
I farmaci di prima scelta sono gli inibitori delle colinesterasi, ovvero delle molecole in grado di bloccare l’attività degli enzimi che normalmente metabolizzano l’acetilcolina.
Quest’ultima è un neurotrasmettitore presente a livello cerebrale, particolarmente coinvolto nei processi della memoria, la cui conservazione risulta quindi una strategia sicuramente utile per proteggere dall’avanzare dei sintomi e per migliorare le funzioni mnesiche.
Anche la memantina, un farmaco che modula il funzionamento dei recettori del GABA (neurotrasmettitore inibitorio), viene impiegata con successo, in quanto è in grado di ridurre la tossicità conseguente a un eccesso di GABA.
Di attualissima ricerca sono i principi attivi capaci di colpire i meccanismi di formazione patologica di beta-amiloide, in grado cioè di agire direttamente sulla patogenesi della malattia.
La ricerca farmacologica attualmente sta cercando di individuare nuove molecole, come antigeni monoclonali che vanno ad attaccare la beta-amiloide accumulata, oppure che sono capaci di correggerne le forme alterate.
Un’opzione sempre vincente, nell’Alzheimer così come in tutte le altre patologie, è rappresentata dalla diagnosi precoce, cioè dalla capacità di identificare un potenziale rischio di sviluppare la malattia in pazienti che ancora non manifestano sintomi.
I radioligandi dell’amiloide utilizzati mediante tecniche PET sono, per questa ragione, uno strumento all’avanguardia ed estremamente prezioso per intervenire tempestivamente negli stadi iniziali.
Anche l’analisi del liquor rappresenta un’eccellente opzione di screening per scoprire chi è affetto da Alzheimer ma non manifesta ancora i sintomi tipici.
Infatti, chi mostra disturbi della memoria, all’interno del suo organismo ha già in atto il processo patologico da almeno 10-15 anni, periodo di tempo all’interno del quale sarebbe estremamente utile intervenire per migliorare in maniera significativa l’evoluzione della malattia.
Il ruolo del care-giver è sicuramente di importanza primaria nello sviluppo della patologia, arrivando a rappresentare, a tutti gli effetti, un elemento terapeutico.
È stato rilevato da studi universitari che, durante il momento del pasto, i pazienti che ricevono attenzioni, coccole e incoraggiamento, si alimento con maggiore facilità rispetto a quelli che non ne ricevono.
La relazione con la Postura e il ruolo della Rieducazione Posturale
Anche se il Morbo di Alzheimer è collegato principalmente a manifestazioni cliniche di tipo intellettivo (come demenza, perdita di memoria, confusione mentale, e altro), esistono anche importanti disturbi motori riguardanti l’andatura e il mantenimento dell’equilibrio.
I malati di Alzheimer, infatti, si distinguono per una deambulazione asimmetrica caratterizzata anche dall’incertezza nello spostamento degli arti inferiori e nell’appoggio dei piedi sul terreno.
Questi pazienti sembrano sempre indecisi su quale direzione prendere e sull’eventualità di proseguire oppure di frenare la loro marcia.
La postura che ne consegue risulta molto modificata, con uno spostamento antero-laterale (destro o sinistro) del busto e con l’adesione delle braccia al corpo.
Spesso il capo viene retroflesso e il malato sembra osservare il cielo, anche se in realtà non sta guardando nulla di specifico, ma segue soltanto lo stimolo di portare la testa verso la schiena.
Tale atteggiamento dipende dalla necessità di mantenere un baricentro normale.
Il ruolo della rieducazione posturale in questi casi si è rivelato particolarmente efficace dato che contribuisce a rinforzare la muscolatura, a raddrizzare la colonna vertebrale e a stimolare il paziente ad essere più collaborativo.
Basandosi su un lavoro di equipe (tra neurologi, posturologi, fisioterapisti e fisiatri) diventa quindi possibile intervenire non soltanto sull’aspetto fisico, ma anche su quello psico-emotivo del paziente, valorizzando la sua volontà residua.
In situazioni del genere è sempre consigliabile impostare percorsi terapeutici personalizzati di ginnastica dolce, di esercizi passivi (supportati dal posturologo con l’impiego di attrezzi).
Oltre a rilassare la muscolatura. gli esercizi posturali permettono di rinforzarla e coordinarla, per offrire all’ammalato tutti gli strumenti per riacquistare padronanza del suo corpo e quindi, in seconda battuta, anche del suo cervello.