Cosa è il Morbo di Parkinson
Il Morbo di Parkinson è una malattia neuro-degenerativa che attacca, in maniera selettiva, determinate vie nervose all’interno dell’encefalo.
In particolare, sono coinvolti i neuroni dopaminergici della sostanza nera, una piccola regione anatomica del sistema nervoso centrale, che riveste un ruolo fondamentale nel controllo del movimento volontario.
Il Morbo di Parkinson è stato descritto per la prima volta da un neurologo inglese, James Parkinson, nel 1800, che lo definisce “asimmetrico”, per via della sua comparsa tipica in una sola metà del corpo.
Si tratta di una patologia progressiva, in cui la velocità di progressione cambia da individuo a individuo, e in cui l’esordio motorio può essere preceduto anche per anni da sintomi non motori.
I sintomi iniziali del Morbo di Parkinson possono essere identificati semplicemente come un cambiamento della personalità, o a comparsa di atteggiamenti inusuali.
Solitamente, poco dopo tali manifestazioni, compare il tremore a riposo, che in genere è il segnale percepito come allarmante dal paziente e dalle persone a lui vicine.
Le mani compiono movimenti caratteristici di apertura e chiusura, chiamati “contare le pillole” oppure “contare le monete”.
Il soggetto accusa contemporaneamente un rallentamento delle sue azioni, sia fisiche che mentali, e una perdita leggera ma costante di iniziativa motoria.
Più tardivamente subentrano anche le alterazioni della stabilità posturale e della capacità di deambulare.
Partendo dalla porzione inferiore del cervello e proseguendo verso l’alto, la malattia segue un percorso ben definito nella sua progressione, e da questo preciso cammino della degenerazione neuronale deriva la sequenzialità temporale dei sintomi.
Infatti, si assiste a un progressivo coinvolgimento di funzioni più complesse del sistema nervoso centrale, responsabili, purtroppo, della comparsa della sintomatologia più grave.
Non si tratta solamente di una malattia neuromuscolare, ma che coinvolge inevitabilmente la sfera psico-emotiva, il ritmo sonno/veglia e il controllo vegetativo degli organi interni.
Durante gli stadi avanzati della patologia, la qualità della vita del paziente viene seriamente compromessa, e il deficit dei movimenti volontari rappresenta addirittura un problema secondario.
Ad esempio, il dolore, sia di natura osteo-articolare che muscolare, come diretta conseguenza della rigidità, non può essere sottovalutato in quanto diventa una costante della vita della persona e deve essere adeguatamente trattato.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che il paziente affetto da Morbo di Parkinson è un individuo di solito anziano, che, in quanto tale, è sottoposto all’insorgenza di patologie di varia natura, legate all’avanzare dell’età.
In questi soggetti, anche un banale acciacco può rappresentare una problematica seria e difficilmente affrontabile, da un punto di vista sia di eventuali interventi chirurgici che di terapie.
La tipica triade sintomatologica, su cui il medico basa la sua diagnosi, è costituita da:
- tremore a riposo, che scompare quando si iniziano a compiere movimenti volontari;
- bradicinesia, cioè perdita di iniziativa motoria e rallentamento;
- rigidità, in cui l’articolazione rimane salda a qualsiasi sollecitazione, con eccezione di alcuni movimenti a scatto, imprevedibili.
Lo specialista, per essere sicuro di trovarsi di fronte al Morbo di Parkinson, si accerta dell’asimmetria dei sintomi, caratteristica sempre presente in qualsiasi paziente, nelle prime fasi della patologia.
I disturbi dell’assetto posturale compaiono in fasi più avanzate della malattia, con problematiche a carico della deambulazione e contrattura perenne a carico del piede (distonia).
Particolare attenzione deve essere prestata alla scrittura del paziente, che si rimpicciolisce progressivamente nel tempo, così come alla riduzione dei movimenti pendolari delle braccia durante la marcia.
La riduzione dell’olfatto è un elemento a cui spesso non si presta la dovuta attenzione, mentre potrebbe essere un campanello d’allarme nei confronti di questa malattia.
Il Morbo di Parkinson è probabilmente ereditario, ma va sempre ricordato che la sua evoluzione è estremamente soggettiva: esistono individui che non conosceranno mai le complicanze più severe, a fianco di persone che in tempi molto rapidi diventano totalmente invalidi.
Anche la risposta alla terapia mostra differenze soggettive, dato che, fortunatamente, esiste chi risponde bene ai farmaci per il resto della propria vita.
Il neurologo deve, in ogni caso, ascoltare attentamente il paziente e i suoi famigliari, allo scopo di decidere come organizzare la quotidianità senza alterare eccessivamente, per quanto possibile, le abitudini.
L’informazione rimane sempre l’arma più efficace per affrontare un percorso sicuramente insidioso, ma che può essere fronteggiato efficacemente con tutti gli strumenti che la scienza mette oggi a disposizione dei malati.
Epidemiologia
Secondo solamente alla malattia di Alzheimer, il Morbo di Parkinson è la patologia neuro-degenerativa più diffusa al mondo, con un’incidenza che si aggira intorno a 1 malato su 100 individui di età superiore ai 65 anni.
Nella popolazione generale, indipendentemente dall’età, l’incidenza è compresa tra 10 e 15 persone per 10mila individui.
Questo significa che in Italia ci sono oltre 300mila persone affette da questa patologia di cui soltanto il 5% con età inferiore a 50 anni e il 70% con più di 65 anni.
La sua distribuzione è strettamente collegata alla zona, dato che la prevalenza di alcune caratteristiche ambientali sembra incidere molto sull’insorgenza del quadro Morboso.
Ad esempio, in Cina si parla di 15 ammalati su 100.000 abitanti, un valore che aumenta in maniera considerevole in Europa, dove i pazienti sono 150-200 per 100.000 abitanti.
La patologia colpisce maggiormente gli uomini (incidenza 2 volte superiore a quella delle donne), con un progressivo aumento nella vecchiaia: 5% in più su pazienti over 85.
In base ad alcune attendibili studi epidemiologici e al fatto che l’età media tende ad aumentare, si pensa che il numero di ammalati potrà raddoppiare entro il 2030.
Eziopatogenesi
La sostanza nera è una regione particolare del cervello, ricca di neuroni che producono, come neurotrasmettitore specifico, la dopamina.
Tale sostanza chimica, una volta rilasciata dalle cellule nervose, incontra i suoi recettori sulla superficie dei neuroni dello striato, una regione anatomica cerebrale adiacente.
La dopamina si lega ai suoi recettori e tale interazione ha l’effetto di inibire le cellule dello striato a rilasciare acetilcolina, un neurotrasmettitore eccitatorio che, in condizioni fisiologiche, raggiunge i suoi recettori a livello di corteccia cerebrale.
Questo fenomeno innesca degli stimoli eccitatori che dalla corteccia cerebrale vengono trasmessi attraverso le fibre nervose discendenti, che raggiungono i muscoli striati periferici e li attivano a compiere i movimenti volontari, come ad esempio camminare, afferrare un oggetto, scrivere, eccetera.
Nella malattia di Parkinson conosciuta come “primaria” o “idiopatica”, c’è una progressiva degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza nera, con il risultato di un’inesorabile riduzione di concentrazione di dopamina che raggiunge lo striato.
Quest’ultimo non è più in grado di controllare la liberazione di acetilcolina, che quindi, in quantità eccessive, viene inviata alla corteccia cerebrale, la quale invia altrettanto eccessivi segnali eccitatori alle fibre nervose discendenti che attivano in maniera impropria i muscoli del movimento volontario.
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Esistono anche forme di malattia di Parkinson cosiddette Parkinsonismi Secondari, in quanto non direttamente collegati alla degenerazione neuronale della sostanza nera, quanto invece a cause esterne che agiscono comunque sulla dopamina.
Alcuni esempi di Parkinsonismo Secondario sono rappresentati da:
- parkinsonismo iatrogeno (da farmaci);
- parkinsonismo conseguente a encefaliti virali;
- parkinsonismo conseguente a ictus.
Nel primo caso, le terapie che espongono il paziente al rischio di sviluppare sintomi simili a quelli del Morbo di Parkinson, sotto forma di effetto collaterale, sono quelle che agiscono sul sistema della dopamina, e cioè gli antipsicotici ed alcuni antiemetici.
Purtroppo, le forme di parkinsonismo secondario si rivelano spesso refrattarie alla terapia tradizionale anti-Parkinson e devono essere curate rivolgendosi alla causa specifica, se trattabile, del disturbo.
Considerando il Parkinson idiopatico, sussistono a tutt’oggi molte incertezze riguardo all’origine della progressiva degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza nera.
La teoria universalmente più accettata rimane quella multifattoriale, che prevede una concomitanza di cause nei pazienti che sviluppano la malattia, come la predisposizione genetica, l’esposizione a pesticidi e difetti metabolici congeniti.
Sintomi
Il Morbo di Parkinson è caratterizzato da quattro sintomi principali, detti anche sintomi maggiori, che sono:
- bradicinesia, ovvero difficoltà nell’iniziare a compiere un movimento;
rigidità muscolare; - tremore a riposo;
- compromissione dell’equilibrio posturale, con predisposizione alle cadute.
Accanto a tali manifestazioni, esistono anche i cosiddetti sintomi minori, che comprendono:
- disturbi nella scrittura;
- disturbi nell’eloquio;
- depressione;
- ansia.
I sintomi di Parkinson non sono evidenti nelle prime fasi dello sviluppo della malattia, ma diventano palesi solamente quando la compromissione di neuroni dopaminergici a livello di sostanza nera raggiunge valori compresi tra il 70% e l’80%.
La diagnosi definitiva viene confermata da una TAC encefalica, che rileva l’alterazione di questa particolare regione anatomica cerebrale.
La progressione della patologia comporta sintomi di crescente gravità, fino ad arrivare a uno stato di acinesia rigida, cioè la perdita totale della capacità di movimento associata a uno stato di costante contrazione muscolare.
Il Morbo di Parkinson non induce la morte in quanto tale, ma indirettamente, in seguito alle complicazioni determinate dall’immobilità.
La causa principale di decesso in pazienti affetti da questa patologia, infatti, è la polmonite ab ingestis, indotta dall’incapacità di deglutire in maniera corretta l’alimento, il quale raggiunge le vie respiratorie profonde, determinando gravi infezioni.
Terapia
Essendo il Morbo di Parkinson causato dalla degenerazione dei neuroni dopaminergici a livello di sostanza nera, la via terapeutica primaria per combattere lo sviluppo della patologia dovrebbe essere orientata alla protezione delle cellule nervose.
I farmaci neuro-protettivi, che impedirebbero la degenerazione cellulare, purtroppo sono ad oggi ancora in fase di studio, e non esistono in commercio sostanze in grado di evitare la morte neuronale.
Pertanto, l’unica via terapeutica attualmente percorribile, è quella sintomatica, ovvero quella di contrastare le manifestazioni indotte dalla carenza di dopamina che dalla sostanza nera raggiunge lo striato.
Per intervenire farmacologicamente sul deficit di questo neurotrasmettitore, sono possibili diverse opzioni, e cioè:
- fornire dopamina esogena all’organismo che ne è carente (levodopa);
- stimolare i recettori della dopamina mediante sostanze diverse dalla dopamina ma
- in grado di legarsi ad essi (agonisti dopaminergici);
- inibire il metabolismo della dopamina endogena, aumentandone l’effetto (inibitori del metabolismo).
Alla prima categoria di farmaci appartiene la levodopa, un precursore metabolico della dopamina, che viene assunto per via orale sotto forma di compresse o capsule.
Una volta digerita, la levodopa viene assorbita dall’intestino ed entra in circolo, da dove, grazie alla sua particolare struttura chimica, è in grado di attraversare la barriera emato-encefalica ed entrare così nel tessuto cerebrale.
All’interno della sostanza nera essa viene trasformata in dopamina, grazie all’azione di enzimi naturalmente presenti nella cellula: i neuroni possiedono in questo modo una quota superiore di dopamina, pronta ad essere liberata quando arriva l’impulso nervoso.
Ad oggi, la levodopa è riconosciuta come il farmaco più efficace per curare i pazienti affetti dal Morbo di Parkinson, ed è anche quello più utilizzato.
Essa, infatti, è in grado di supportare in maniera significativa il soggetto in tutte le manifestazioni della patologia: sembra addirittura che, se impiegata fin negli stadi precoci della malattia, sia in grado di fare scomparire quasi totalmente rigidità, tremore e bradicinesia.
Purtroppo, con l’avanzare del tempo, la levodopa diminuisce progressivamente il suo effetto, in quanto subentra una perdita progressiva di controllare il deficit di dopamina e, contemporaneamente, compaiono discinesie anche importanti.
Non va dimenticato, tra l’altro, che l’assunzione di levodopa mostra effetti decisamente variabili tra diversi pazienti, quindi la durata della sua efficacia sul lungo periodo è piuttosto imprevedibile, dato che coinvolge anche fattori genetici non conosciuti.
Gli effetti collaterali della levodopa interessano complesso il sistema della dopamina, che entra in gioco anche nell’induzione del vomito: ecco perché l’emesi rientra tra le più comuni manifestazioni legate all’assunzione di questo farmaco.
Anche la tachicardia, l’ansia e l’ipotensione sono effetti inevitabili dell’interazione della dopamina con specifici recettori presenti nell’organismo, che il medico deve prendere in considerazione nei pazienti affetti da Parkinson e trattare con altrettanti farmaci sintomatici.
La seconda categoria di farmaci che si utilizzano per la malattia di Parkinson idiopatica, è rappresentata dagli agonisti dopaminergici.
Si tratta di molecole strutturalmente analoghe alla dopamina e pertanto in grado di instaurare legami altamente specifici con i suoi recettori, naturalmente presenti a livello encefalico, nei neuroni dello striato.
La bromocriptina, la pergolide, il ropinirolo e il pramipexolo sono alcune sostanze che vengono utilizzate a questo scopo, con benefici anche significativi sulla funzionalità motoria del paziente, sebbene sempre inferiori a quelli apportati dalla levodopa, che rimane sempre il farmaco di prima scelta.
Un vantaggio non indifferente, rispetto alla levodopa, è costituito dal fatto che gli agonisti dopaminergici si rivelano efficaci anche nelle fasi avanzate della malattia, quando invece la levodopa perde la sua potenza.
Anche l’apomorfina può essere utilizzata come agonista, con l’opportunità di essere somministrata per via sottocutanea, ma soltanto in maniera occasionale, dato che il suo potere emetogeno è talmente spiccato da richiedere sempre un’associazione con antiemetici, impensabile in un contesto di terapia cronica.
La terza categoria di farmaci comprende gli inibitori del metabolismo della dopamina, come l’entacapone.
Essi sono in grado di aumentare l’emivita plasmatica della levodopa e quindi la percentuale che attraversa la barriera emato-encefalica e che raggiunge il cervello.
Anche la selegilina è una molecola che consente di ridurre la posologia della levodopa in quanto ne prolunga la durata d’azione.
La relazione con la postura e il ruolo della Rieducazione Posturale
La postura dei pazienti affetti dal Morbo di Parkinson si caratterizza soprattutto per una tipica flessione anteriore del corpo con un atteggiamento definito camptocormico.
Questo comportamento prevede:
- capo flesso sul tronco;
- braccia in semi-flessione;
- avambracci intra-rotati e mantenuti aderenti al corpo;
- ginocchia flesse all’indentro;
- piedi disallineati.
In alcuni casi la antero-flessione del tronco si unisce a una latero-flessione, provocando l’insorgenza della postura a torre di Pisa, che è un altro segnale tipico e discriminante.
La deambulazione di questi pazienti si evidenzia per un procedere lento ed incerto, limitato in lunghezza (passettini) ed in altezza (piedi che si staccano poco dal terreno), con riduzione della sincinesia pendolare delle braccia.
Spesso è presente anche festinazione (atteggiamento simile alla corsa) e strisciamento delle piante dei piedi, causato dallo spostamento in avanti del baricentro.
Un altro fenomeno è il congelamento, freezing, con blocco transitorio e improvviso della deambulazione, che si può verificare all’inizio della marcia, start hesitation, oppure nel cambio di direzione.
A causa di tutti questi sintomi molto incisivi e limitanti, la rieducazione posturale svolge un ruolo di primaria importanza per migliorare le condizioni del paziente e per consentirgli di vivere in maniera meno problematica.
Grazie a esercizi fisici mirati e supportati da un professionista esperto e competente (fisioterapista, posturologo, fisiatra) è possibile impostare un percorso di cure personalizzate e finalizzate a potenziare l’indipendenza motoria e il mantenimento dell’equilibrio.
Per minimizzare il freezing di solito si ricorre a ginnastica passiva, utilissima per mantenere il tono muscolare e limitare la rigidità.
Anche i massaggi si sono rivelati estremamente efficaci soprattutto se associati a esercizi posturali con attrezzi.
È comunque indispensabile intervenire il più tempestivamente possibile per limitare i danni neurologici e l’instabilità posturale che ne consegue.
Naturalmente questo vale anche in caso di diagnosi di patologie più complicate. La malattia cardiaca o polmonare, per esempio, soprattutto se cronica, mette a dura prova la muscolatura del torace e, di conseguenza, le vertebre mezzane della colonna. La tosse continua, o l’impossibilità di fare dell’attività fisica o, addirittura, la costrizione a letto, non ha un impatto positivo su spalle, braccia, schiena e gambe. Una riabilitazione mirata può migliorare nettamente la qualità della vita del paziente, anche se affetto da patologia cardio-polmonare e, addirittura, permettere una migliore espansione della gabbia toracica quindi promuovere una respirazione più completa e corretta.
Tutto questo, però, va valutato e messo in pratica solo dopo aver scoperto l’effettiva causa del dolore e aver intrapreso una corretta terapia, atta a tenere sotto controllo la patologia. In questi casi la posturologia può essere un valore aggiunto, un ottimizzante del risultato e un supporto per lenire i sintomi.